PAPI E BEATI - PAPA GIOVANNI XXIII - IL VIAGGIATORE DI DIO

INTRODUZIONE

Voglio andar piano. Chi sa che non mi riesca di arrivar lontano, nonostante le peripezie e le difficoltà che mi annunziano». Roncalli scriveva queste parole in una nota del 30 dicembre del 1934, alla vigilia di entrare in Turchia come Delegato Apostolico. Ma è un pensiero che può riassumere molto bene la docilità del suo cuore di fronte ai disegni della Provvidenza e alle decisioni della Chiesa.
Egli è stato sempre un grande camminatore. L'allenamento fisico che gli toccò di fare sin da bambino per frequentare la scuola di Celana, è soltanto un simbolo dell'agilità mentale e psicologica che gli sarebbe stata necessaria poi per lunghi anni nell'affrontare Paesi e Popoli, usi e consuetudini sempre diverse.
Egli è andato piano, ma senza mai fermarsi. Ed è giunto fin sulla Tomba di Pietro, a raccogliere la suprema autorità dell'Apostolato, soprattutto perché ha saputo essere sempre in pace nell'esercizio dell'obbedienza. Il motto del Baronio inserito nel suo stemma di vescovo non è stato una bella frase: è stato un impegno d'ogni giorno, d'ogni momento. Andare o fermarsi, accettare gli onori o vivere in penombra, rallegrarsi semplicemente del buon esito di alcune iniziative o accettare con umiltà le denigrazioni e le ironie, per lui ha significato soltanto compiere la volontà di Dio.
Ha sempre dovuto rinunciare a qualcosa che gli sarebbe piaciuto, ma non s'è mai atteggiato a vittima per questo. Confessò spesso che avrebbe voluto dedicarsi esclusivamente all'apostolato fra i giovani. Nel maggio del 1956, inaugurando un pensionato universitario a Padova, mentre era patriarca di Venezia, confessava a quelle ragazze: «La Provvidenza dispose che io consacrassi a quest'opera il più e il meglio della mia modesta attività sacerdotale per oltre tre anni, nel periodo incerto ma pure incoraggiato dall'ottimismo, e dal trapasso dalla guerra alla pace». Il «periodo incerto» di cui parlava è quello che intercorre fra la morte di Radini e la chiamata a Roma. Professore di patristica, di storia ecclesiastica e di apologetica nel seminario locale, tre giorni alla settimana egli poteva trovarsi a tu per tu con i futuri sacerdoti e offrire loro i paragoni vivi e stimolanti dei grandi pensatori e teologi dei primi secoli cristiani. Roncalli amava in modo particolare i Padri della Chiesa, e questo amore non gli verrà mai meno; anche durante gli anni del Papato ricorderà con commozione la lezione dei maestri più illustri della Chiesa, indicandoli come le fonti a cui i sacerdoti debbono di preferenza attingere.
Sia in seminario che fuori, i giovani rappresentavano la materia più viva e sensibile che gli si offrisse per essere plasmata. L'ex segretario, ormai, in un certo senso, disimpegnato da un incarico tanto delicato ed amato come quello assolto per circa dieci anni, guardava ad un orizzonte modesto e sperato come quello di potersi dedicare interamente alla gioventù bergamasca.
Presto dovette rendersi conto che quella non era la volontà di Dio né l'intenzione dei superiori. Confessava ancora, sempre nel discorso di Padova: «Il contatto quotidiano coi giovani, buoni figli di papà, maturò nel mio spirito la convinzione che nulla di più alto e di più bello potesse offrirsi al mio ministero sacerdotale e che a nulla di più onorevole dinanzi a Dio ed alle anime avrei potuto aspirare che alla consacrazione totale della mia umile vita al suo termine a questa assistenza spirituale della giovinezza studentesca praticata come un grande servizio della santa Chiesa e del mio paese. I disegni del Signore furono altri. Li dovetti seguire, il cielo me ne è testimonio, in obbedienza alla sua volontà e mi condussero da Roma per le strade del mondo che non avrei potuto immaginare, nel prossimo Oriente, presso il gran Balcano in terra slava; poi sulle rive del Bosforo, nell'Ellade sonante di sacre e profane memorie; poi a Parigi ed in Francia, il grande quadrivio d'Europa, e un poco nel mondo intero; e finalmente a Venezia, presso san Marco».
Fu durante la lettura di quel discorso che accadde un episodio che rivela tutta l'umiltà e la naturalezza dell'uomo che solo due anni dopo sarebbe stato eletto Papa. Nel preparare la cartella con il testo della conversazione, il segretario del patriarca, per una svista, dimenticò a Venezia un foglio. Quando se ne accorse telefonò a Padova per cercare di rimediare, ma non era più possibile. Il patriarca aveva già cominciato a leggere tranquillamente i fogli che aveva trovato nella cartella. Al momento del "salto", la suora che stava vicina al podio, si rese conto che il filo del discorso era stato spezzato. Credendo che l'oratore non se ne fosse accorto, si avvicinò per sussurrare qualcosa, con molta discrezione. Ma il patriarca la fermò con un gesto della mano, e, in un inciso davvero estemporaneo, le disse, a voce più bassa: «Stia tranquilla, sorella; non si preoccupi per me: la brutta figura l'ho già fatta». E continuò imperterrito sino alla fine.
Il solo seminario non poteva bastare alla sua ansia di amico dei giovani. A Bergamo affluivano molti studenti, anche dai paesi vicini, e non avevano dove essere ospitati e assistiti con cura e intelligenza. Don Roncalli decise di dar vita a un centro che li riunisse e li mettesse in contatto fra loro, salvandoli dall'isolamento e dalle dispersioni di intelligenza e di sensibilità tanto frequenti a quell'età. Fondò la «Casa dello Studente», che era una delle attività della più vasta "Opera Sant'Alessandro" di cui don Roncalli era membro e che aveva per presidente il vescovo.
La nuova attività era impostata da don Roncalli prima di tutto nel dono della sua presenza. Stava più che poteva fra i giovani. Li ascoltava a lungo molto più di quanto parlasse. Una delle componenti più genuine della sua capacità di simpatia, si è manifestata fin da quegli anni proprio con la facoltà di saper ascoltare. Saper ascoltare è sempre più difficile, per tutti, ma specialmente per chi è abituato a prendere la parola, che saper parlare.
Della guerra i giovani studenti che don Roncalli aveva preso in cura non erano stati vittime nel fisico, ma certo nello spirito. Come in ogni dopoguerra, anche in quegli anni, il caos regnava soprattutto nella coscienza degli adolescenti. Essi avevano visto crollare molti miti, non credevano più ad occhi chiusi nelle "magnifiche sorti e progressive" del paese. L'Italia era uscita dalla guerra vittoriosa, ma stremata. Il crollo degli ideali più sostenuti dal laicismo e dall'anticlericalismo non offriva alcun compenso e alcun surrogato. Non era possibile se non un recupero di natura morale e religiosa, mentre, nel disordine della nazione, stava già agitandosi un giovane socialista romagnolo, e mentre D'Annunzio, finita la leggenda che la guerra gli aveva creato intorno, ripiegava su una letteratura sempre più decadente ed estroversa, specchio rovesciato della disfatta morale del paese.
Roncalli aveva il senso della realtà. Intendeva guardare in faccia le cose, e aiutare i giovani a non farsi illusioni. Li voleva liberare dalle illusioni pericolose proprio mentre li arricchiva di speranza. Era un compito difficilissimo, specialmente se svolto fra studenti; occorreva dare ad essi anche una formazione spirituale a livello sia della loro cultura che delle loro speranze concrete.
Nella sezione diocesana d'Azione Cattolica si era impegnato per il settore riguardante le attività sociali. Non trascurava tuttavia la cultura, in cui si andava sempre più approfondendo. Svolgeva un'attività che spesso lo impegnava per dodici-diciotto ore, e riserbava al sonno il meno del suo tempo. A quell'età poteva permetterselo. Aveva solo trentanove anni; era saldo e solido di corporatura, già stempiato ma con un vivace ciuffo di capelli sulla fronte; resisteva bene a tutte le fatiche. Per le ore che riusciva a rubare al sonno la sua opera sulla visita apostolica di san Carlo Borromeo a Bergamo andava lentamente crescendo. Intanto frequentava l'ateneo cittadino di scienze e lettere, di cui era socio; e si prodigava inoltre per alcuni circoli della gioventù femminile. Il 9 settembre del 1920 si tenne a Bergamo il Congresso Eucaristico Nazionale, e don Roncalli fu incaricato, di trattare uno dei temi delle assemblee. Scelse lo stesso tema che era piaciuto al suo caro Radini: «L'Eucaristia e la Madonna, amori del cristiano». Il 22 settembre andò a trovare a Milano il grande amico del "suo" vescovo, Andrea Ferrari, divorato da un cancro anche lui. Non lo avrebbe più veduto. Gli avrebbe soltanto chiesto consiglio, dopo poche settimane, se accettare o no l'offerta di trasferirsi a Roma.

ORGANIZZAZIONE DI SAGRESTANI

Il suo orizzonte non si apriva ad attese e speranze di particolari attività. Sarebbe stato felice per tutta la vita, se fosse potuto restare per sempre a Bergamo, a contatto con i suoi giovani. Colui che sarà chiamato "parroco del mondo" ha sempre dimostrato assoluta predilezione per un apostolato semplice, in cui fosse possibile il contatto diretto con le anime, senza interferenze e burocrazie di sorta. Una volta giunto al pontificato, il suo segreto consisterà nel saper salvare quel contatto diretto, in ogni circostanza, senza attenuare la realtà della solennità di un ministero tanto unico e sublime.
Si occupava di tutto quello che gli desse modo di dilatare la sua carità di sacerdote. Si prese a cuore la categoria dei sagrestani, notoriamente ignorata ad ogni effetto sociale, composta com'è, nella maggior parte dei casi, e ancora oggi, di uomini giudicati piuttosto "anormali", o veri e propri esseri sottosviluppati della società. Organizzò centri di assistenza alla gioventù femminile; trovò modo di giungere alle infermiere, alle impiegate, persino alle telefoniste. Per quei tempi, tutto questo, a molta gente, sembrava davvero troppo. Vada per i sagrestani, si diceva, ma che bisogno c'era di organizzare addirittura le telefoniste?
Nei locali della Casa del Popolo, un edificio creato per riunire tutte le opere cattoliche della città, don Roncalli andava espletando ogni giorno un'attività infaticabile. Aveva il fisico adatto, una salute di ferro, d'accordo, ma non pochi si domandavano come facesse a resistere. La gamma dei suoi interessi e dei suoi impegni era davvero sconfinata. Sembrava a qualcuno che il giovane prete stesse esagerando. Altri magari pensavano che si logorasse la sua intensità spirituale a vantaggio di tutta quella intensa attività. Radini, che gli aveva dato l'esempio di quel fare sempre e ad ogni costo, era morto appena cinquantenne; che cosa sarebbe successo a don Roncalli se avesse continuato con quel ritmo?
Ma lui non badava a queste cose, né alle accuse né alla compassione. Sentiva che il fisico gli rispondeva sempre come un motore fedele che non fallisce un colpo; e lo zelo gli cresceva sul metro delle cose che c'erano sempre da fare. D'altronde, la sua attività, a esaminarla con attenzione, si rivela, proprio in quegli anni - gli anni critici, in genere, per tutti i sacerdoti, da molti punti di vista - più orientata al ministero strettamente spirituale che a quell'attivismo logorante che più tardi Pio XII chiamerà giustamente «eresia dell'azione».
Infatti, se il professore di patristica era brillante e molto seguito dai seminaristi, essi sapevano che in lui il direttore spirituale, il confessore, il padre delle loro anime era ancora più limpido, efficace, ricco di comprensione e di carità.
Nel frattempo non trascurava l'evangelizzazione della classe colta.
Aveva organizzato un ciclo di conferenze storico-religiose alla Casa del Popolo che riscossero un grandissimo successo, tanto che la locale Università Popolare ne chiese la ripetizione nella propria sede. Si era già in clima di vigilia. La guerra era nell'aria. Roncalli, nello scegliere i dieci temi del ciclo, volle di proposito guardare lontano, all'"ieri" e al "domani" della Chiesa e del mondo, per inserire il motivo della speranza in ogni considerazione sulla realtà della storia. Era una specie di scommessa contro il pessimismo tragico di quell'ora. Il tema generale era Chiesa e scuola.
Sono lezioni tagliate sul filo dell'apologetica tradizionale, ma mai prive di un segno di realismo autentico, di modernità psicologica, di grande rispetto per gli avversari. La capacità di veder "presto e bene" nelle cose e negli uomini non andava mai disgiunta in lui dal confronto concreto con le lezioni eloquenti che scaturivano dalla storia dolo rosa o gloriosa della Chiesa.

IL DESIDERIO DEL «PAPA ROSSO»

Dalla sua cultura e dalla sua devozione umana e sacerdotale era scaturito un documento perfetto: la biografia di Radini Tedeschi. In essa era e restava vivo l'uomo ideale, l'"uomo per ogni stagione", come il drammaturgo Bolt dice di san Thomas Moore. Mentre andava annotando giorno per giorno le lotte, le ricerche e i progressi della propria anima nel Giornale dell'Anima, offriva al mondo, esemplificato in terza persona, nell'uomo che certamente egli ha ammirato e amato più di ogni altro, il documento vivo, il ritratto del pastore ideale che il suo cuore aveva sognato e avuto accanto per dieci anni.
Nel 1916, il 22 agosto, l'opera vedeva la luce. Il 24 settembre egli era già a Roma ad offrirne una copia a Benedetto XV, che nel frattempo era successo a Pio X. Proprio in quell'anno, nel deserto africano, a Tamarannset, moriva trucidato un altro "santo", uno degli esempi più alti della spiritualità contemporanea, fratel Carlo de Foucauld. Si succedevano, poi, anche i mesi della disfatta di Caporetto, dell'entrata in guerra della Cina contro gli Stati Uniti. Cominciava la rivoluzione russa, ed a Fatima la Vergine appariva a tre pastorelli affidando loro un messaggio per tutti gli uomini. Luce e tenebre si contrastavano drammaticamente sulla faccia della terra. Pochi vedevano la luce, molti disperavano, immersi nelle tenebre. Don Roncalli non sapeva a quale destino era chiamato ma, da vero sacerdote, cercava di offrire al mondo, oltre alla sua dedizione di uomo di carità e di cultura, l'immagine esemplare di un grande vescovo amico e difensore dei poveri, degli umili, dei perseguitati.
Certo non immaginava di dover lasciare Bergamo per Roma. L'essere stato a Roma, l'avervi studiato, l'averne assimilato una apertura e una consapevolezza più completa dei problemi centrali, significava per lui soltanto aver avuto la fortuna di poter arricchire la propria attività svolta a Bergamo di un carattere e di una vibrazione cattolica particolare.
Cadde dalle nuvole quando, nei primi giorni del 1921, ricevette un biglietto del cardinale Van Rossum (detto il "Papa rosso" per l'importanza della sua carica di Prefetto della Congregazione per la Propagazione della Fede) che lo invitava a Roma a lavorare nel settore delle attività missionarie di cui quella Congregazione è il centro per il mondo cattolico. Il cardinale notificava che la segnalazione del giovane Roncalli era venuta personalmente da Benedetto XV, e che quindi non era possibile rifiutare.
Don Roncalli cercò di guadagnare tempo. Elogi e riconoscimenti non lo turbavano. Quello che più desiderava era sapere se veramente poteva considerarsi adatto al compito che gli si voleva assegnare. Obbedienza e pace era già, di fatto, il suo motto. Ma egli non concepì mai un'obbedienza "cieca"; la donò e la volle sempre consapevole e intelligente.
Occuparsi di attività missionarie gli piaceva, ma sarebbe stato idoneo? La Congregazione dove doveva entrare era detta a Bergamo l'«opera del soldino», per la tradizione delle raccolte dei soldi spiccioli delle "giornate missionarie". Ci fu, in quei giorni, quasi una crisi di coscienza, nell'anima di Roncalli. Era davvero adatto? Quello lo doveva sapere il Papa, ma doveva saperlo anche lui, perché il Papa non poteva conoscerlo dentro. «Il senso della mia pochezza» scriverà più tardi «mi ha sempre fatto buona compagnia». Gliela fece anche quella volta, tanto che non si fidò di sé stesso a dire di sì. Scrisse al cardinal Ferrari, già inchiodato al letto dell'agonia e ormai senza voce. Il cardinale rispose a giro di posta. Era un biglietto scherzoso, ma conteneva il suggerimento di un santo che vedeva giusto e lontano: «Caro professore, Ella sa quanto le voglio bene. Volontà del Papa rosso è volontà del Papa bianco: dunque è volontà di Dio. Lasci tutto e vada: la seguirà una grande benedizione del Signore».
Allora Roncalli non ebbe più dubbi. Salutò gli amici e i discepoli, mise in ordine le poche cose, fece un salto a Sotto il Monte a salutare la sua gente, sempre più vecchia e più limpida, e partì per Roma. Il 18 gennaio 1921 saliva per la prima volta le scale del palazzo di Propaganda Fide. Non vi giungeva come semplice aiutante: vi era stato chiamato come direttore, per l'Italia, dell'Opera per la Propagazione della Fede. Non sapeva niente di quella carica, e degli impegni che comportava. Dopo il primo colloquio che ebbe con mons. Laurenti, non ne sapeva molto di più; e comprese che l'opera, ancora da nascere, aveva bisogno di tutto: di idee e di senso della realtà. Era per questo che avevano chiamato lui da tanto lontano? Com'era possibile che si riponesse in lui tanta fiducia?
Ebbe tempo per riflettere, tornò a Bergamo per chiudere l'anno scolastico in seminario. Per un po' di tempo fu costretto a fare la spola fra Bergamo e Roma; lassù doveva sistemare definitivamente le proprie cose e chiudere con ordine le varie attività intraprese, o metterle in mani adatte; laggiù si andava lentamente orientando sulle possibilità e le esigenze che la nuova opera suggeriva.
Di fatto, era già un capo, un uomo guida. Fu più che naturale che a Roma si pensasse subito a dargli un primo segno di rispetto e di stima anche esteriormente. Il 7 maggio Benedetto XV lo nominava Prelato Domestico. Angelino, l'Angelino di Sotto il Monte, anche se ormai sufficientemente esperto del mondo ecclesiastico romano dovette certo sorridere di questa onorificenza. Pensò - e lo disse - che lo si premiava prima ancora che avesse lavorato. Ma non sapeva che al Papa bastava che egli avesse accettato un compito gravoso come quello che lo attendeva.

COSE COMBINATE DAI PRETI

Era andato a Roma con pochi quattrini in tasca. A Bergamo aveva sempre vissuto dignitosamente, ma della dignità dei poveri. Quand'era stato congedato, nel 1918, lo stipendio da soldato e da cappellano - che non aveva mai ritirato prima - gli fu consegnato tutto insieme, con gli arretrati; ma pare che la somma non superasse le poche centinaia di lire. C'era poco da fare. Per una veste paonazza come compete di rito ai monsignori, come avrebbe fatto? La stima del Papa non poteva essere rifiutata; e Roncalli non era, non fu mai un eccentrico che prendesse posizioni clamorose su certe cose; il suo segreto è stato sempre quello di accettare tutto nei modi più adatti, tanto gli onori che gli oneri. La direzione della Propagazione della Fede era un onore gravoso; perché non accettare, con la stessa semplicità, anche l'onere delle insegne monsignorili? Una foto dell'epoca, che lo ritrae in mezzo ad un gruppo di laureati cattolici vestito appunto da monsignore, lo mostra sereno, sorridente, quasi faceto.
Fu con quell'abito paonazzo che nel giugno dello stesso anno andò a salutare gli amici di Bergamo. Per la festa di san Giovanni Battista, il 24, era a Sotto il Monte. Lo guardavano un po' intimoriti e un po' divertiti, il loro Angelino diventato monsignore, tutto ammantato di rosso; a loro sembrava un vescovo anche se non lo era.
Mentre assisteva all'altare, per la messa solenne, le donnette del paese non resistevano alla curiosità, e si distraevano facilmente per guardarlo. Una non riuscì a tenersi, e domandò a mamma Marianna: «Cosa fa vostro figlio con quell'abito da vescovo?».
«Mah» rispose la madre «io non ne so nulla. Son tutte cose che combinano i preti fra loro.»
Lei sapeva soltanto che, rosso o nero, il suo figliolo aveva già cominciato a diradare le visite al paese e alla famiglia. Aveva sempre gli stessi modi semplici, delicati, quasi timidi, ma arricchiti di un tratto signorile, sicuro, che si sarebbe andato accentuando con gli anni, e che era già il segno in cui trovava modo di manifestarsi la sua trasparenza e la sua intensa umanità. Pur restando sempre un figlio della terra, cominciava ad avere qualcosa del principe. Queste cose la vecchia madre non le sentiva chiare, ma appena come un nodo alla gola ed una stretta al cuore, un nodo di solitudine, una stretta di gioia per il suo Angelino che aveva vinto ed aveva trovato la sua strada.
Pochi giorni dopo essere giunto a Roma, fu ricevuto dal Papa. Era stato lui ad affidargli quella grande responsabilità, e fu lui a chiarirgli le grandi linee del programma da seguire. Asciutto, piccolo, già vicino alla morte, Benedetto XV fu molto chiaro con il monsignorino bergamasco che gli si era genuflesso davanti.
I tempi maturavano in fretta, imponendo nuove prospettive e nuove esigenze. Il mondo cominciava ad essere sempre più piccolo, e il colonialismo, trionfante al vertice e ancora pieno di prepotenza e di suggestioni anche di tipo falsamente religioso, era comunque già in crisi alla radice. La guerra dei boeri era stata disastrosa. L'anno dopo, nel 1922, sarebbe finito il protettorato inglese in Egitto.
Benedetto XV morì il 22 gennaio 1922. Gli succedeva un uomo che Roncalli conosceva già bene, e dal quale era stimato e ammirato, il card. Achille Ratti, l'ex bibliotecario dell'Ambrosiana, colui che per primo gli aveva fatto coraggio per la pubblicazione dell'opera su san Carlo Borromeo. Era il terzo Papa che Roncalli conosceva personalmente: tre Papi che gli avevano dimostrato una benevolenza di cui, nella sua umiltà, non finiva di stupirsi.
Achille Ratti era stato eletto il 6 febbraio, al quattordicesimo scrutinio. Mons. Caccila Dominioni, quando il nuovo Papa usci dalla Cappella Sistina, dopo la terza "adorazione" da parte dei cardinali elettori, trovò il tempo di presentare a Pio XI il giovane prelato bergamasco che stava diventando il proprio uomo di fiducia. Roncalli s'era genuflesso di colpo davanti al Papa, e aveva chinato il capo. Ma il Papa lo aveva bene riconosciuto, anche perché Caccia Dominioni gli aveva detto: «Santità, questo mio giovane collaboratore, appena saputo della vostra elezione, mi ha detto: Ora spero che i lavori per l'Opera di Propaganda Fide saranno presto conclusi».
Roncalli si rialzò per baciare l'anello del Papa; e si trovò di nuovo, come un giorno non molto lontano, fissato dalle calme pupille dell'uomo che, da dietro le massicce lenti di miope, lo aveva scrutato tra gli scaffali dell'Ambrosiana. Era lo stesso sguardo asciutto, ma benevolo, ed ora anche leggermente sorridente. Di quel solido prete s'era fidato un giorno per un impegno di natura culturale; ora se ne sarebbe fidato per un impegno molto più importante e delicato quale un'opera missionaria. Pio XI ebbe sempre una particolare predilezione per le missioni. Il Signore gli mandava incontro, il giorno stesso dell'elezione, un uomo che avrebbe, dopo quasi quarant'anni, arricchito la Chiesa del più moderno e urgente carattere missionario: quello dell'ecumenismo e del dialogo.
Roncalli e Ratti erano pur diversissimi per carattere e sensibilità, eppure i loro interessi e il loro zelo convergevano, pur nascendo in zone quasi opposte. Erano diversi nel modo di concepire e attuare le cose: ma le cose cercate e volute erano le stesse: un'apertura maggiore all'interno ed all'esterno della Chiesa. Roncalli maturava per un'ora ancora lontana, ma Ratti volle subito rivelare il tipo dei propri slanci, e fece un gesto che sembrò allora rivoluzionario, ed in certo modo lo fu. Invece di impartire la prima benedizione al popolo dalla loggia interna della basilica di san Pietro, volle affacciarsi alla loggia esterna, quella che dà sulla piazza. Lo stupore e la commozione dei romani non ebbero limiti; i giornali, anche quelli lontani da ogni ispirazione cattolica furono talmente entusiasti del fatto che ci vollero vedere anche quello che non c'era. Comunque stava accadendo qualcosa di effettivamente nuovo. Sarà infatti Pio XI che sette anni dopo firmerà i Patti del Laterano e il Concordato con lo Stato italiano, chiudendo oltre mezzo secolo di distacco, di umiliazioni, di rancori reciproci. Un uomo fervido, spesso impulsivo come Papa Ratti era il Papa più adatto com'è stato detto, a «tagliare il nodo gordiano» della «questione romana».
Pio XI non dimenticò la richiesta del giovane Roncalli. Alcune settimane dopo l'elezione firmava il «motu proprio» Romanorum Pontificum con cui elevava alla dignità di «opera pontificia», unificandole tutte in una, le Opere della Propagazione della Fede. Si venne presto a sapere che quel «motu proprio» era stato redatto dallo stesso monsignor Roncalli. Egli era ormai vicino al Papa, e del Papa avrebbe dovuto cominciare subito a portare lontano la parola e lo spirito.
A dargli la consegna di viaggiare era stato Benedetto XV. Dopo avergli esposto le condizioni disastrose dell'Opera e la necessità di rimettere in collegamento i vari gruppi in tutti i paesi, aveva concluso dicendogli: «Sarete il viaggiatore di Dio». Pio XI gli rinnovò la consegna, e Roncalli partì subito. Viaggiò per tutta l'Italia, quindi fu in Belgio, Germania, Austria, Svizzera, e infine in Francia. In quel lungo pellegrinaggio di lavoro conobbe il Paese che, dopo la Bulgaria, resterà più vicino al suo cuore fra quelli stranieri, il Paese in cui nel 1945 tornerà come Nunzio Apostolico, nella sede diplomatica più importante per la Chiesa.
Due delle tante opere per la Propagazione della Fede erano state fondate proprio in Francia, e sembrava che i fondatori non fossero molto propensi ad accettare l'unione disciplinare di Roma. Fu detto a monsignor Roncalli che in Francia non erano ancora guariti da quel «nazionalismo religioso» che era stato definito «gallicanesimo». Ma egli seppe affrontare subito le difficoltà della situazione con il buon senso, il tatto e la saggezza con cui, vent'anni dopo, affronterà, ancora in Francia, a tu per tu con De Gaulle, la questione dei cosiddetti «vescovi collaborazionisti». Oltre tutto quello fu per lui un esercizio obbligato di lingua francese, che aveva sempre desiderato di conoscere e parlare nel miglior modo possibile. Riuscì a superare ogni resistenza, e, sebbene in mezzo a gravi difficoltà, seppe convincere i più tolleranti sulla necessità di trasferire a Roma la direzione delle opere missionarie.

ANGELINO DIVENTA VESCOVO

Il 1° settembre del 1924 Roncalli era di nuovo a Bergamo, per la traslazione della salma del suo amato Radini dal cimitero comunale alla nuova tomba, fra quelle degli altri vescovi della città. Naturalmente toccò a lui tenere il discorso commemorativo; e l'emozione, dopo dieci anni, fu la stessa di quando aveva pianto di dolore e di edificazione davanti all'agonia e alla morte del maestro. «Quanto più - egli disse - questa dolorosa cerimonia volge al suo termine, il cuore nondimeno già prova il tenero conforto che viene da un dovere compiuto nel modo migliore. Coraggio, dunque, fratelli miei, e procediamo ancora tutti quanti uniti nel cammino della pace. Che ci siano di guida le parole con cui questo grande servitore di Dio e della Chiesa che noi abbiamo testé onorato ci rivolse come sua estrema volontà: Io raccomando a tutti la giustizia, la verità e la carità».
Il 1925 fu dichiarato da Pio XI «Anno Santo», e fu indetto il giubileo. Ma Papa Ratti non volle che la cosa fosse ricordata con monumenti e altri segni del genere. Preferì che si organizzasse una grande esposizione missionaria, per rivelare ai fedeli il volto più dinamico ed eroico della Chiesa.
Tre anni prima era salito al potere, in Russia, l'ex seminarista ortodosso Giuseppe Stalin. Il mondo si preparava ad assistere a una delle tragedie più sanguinose ed assurde della dittatura nei tempi moderni. Fra pochi anni un'altra dittatura sarebbe nata in Germania con l'ex imbianchino Adolfo Hitler, un cattolico rinnegato d'origine austriaca, che porterà il mondo alla catastrofe e sterminerà sei milioni di ebrei. In Italia era salito al potere da tre anni un ex socialista, un maestro romagnolo figlio di un fabbro, Benito Mussolini; quello stesso che accetterà e firmerà i Patti del Laterano con Pio XI, e che quindi li violerà, portando poi l'Italia nell'incendio della guerra più inutile e disastrosa.
Mentre le democrazie languivano o morivano sotto il tallone delle dittature, la Chiesa riaffermava la propria dimensione «missionaria», cioè di testimone e di annunciatrice della «verità che non passa». Poneva, con Pio XI, anche da questo punto di vista, le basi di quel «nuovo corso» che si sarebbe riassunto e maturato più tardi nel Concilio Vaticano II.
Già dal 1924 intanto Roncalli aveva avuto l'incarico di professore di patrologia agli alunni del Pontificio Ateneo Lateranense. Aveva accettato con entusiasmo. Ogni possibilità di tornare in contatto coi grandi Padri della Chiesa, e soprattutto la possibilità di indicarne e spiegarne i tesori ai giovani sacerdoti, era per lui una conferma a scelte e simpatie profonde, che non si attenueranno mai, e che riassumono insieme il suo zelo sacerdotale e il suo gusto di uomo di cultura. Quando, nel 1958, tornò da Papa ad aprire l'anno accademico dell'Ateneo non rinunciò a ricordare, con entusiasmo e candore, il successo riscosso tanti anni prima in quelle aule: «Quelle quindici lezioni... Ci interessarono così vivamente da rappresentare, a distanza di trentatré anni, motivo di umile ma sincera esaltazione. Non sappiamo a che cosa il nostro successo fosse dovuto: ma rammentiamo bene la festa e gli applausi con cui i nostri cari alunni di quel tempo accompagnarono e sottolinearono ogni lezione».
Il 23 ottobre del 1923, a Roma, M. Kalkov, un diplomatico bulgaro in visita in Italia, fissava con il card. Gasparri, segretario di Stato di Pio XI, le basi d'intesa preliminare per una chiarificazione delle relazioni fra Bulgaria e Santa Sede, relazioni che avrebbero dovuto sfociare in un eventuale concordato. Roncalli non immaginava che sarebbe toccato proprio a lui, l'anno seguente, affrontare il problema nella sua difficile realtà.
Ora era davvero maturo per diventare vescovo. Quello che dovette dargli più sgomento e più gioia insieme fu il fatto che a farlo nominare vescovo era la stessa responsabilità a cui era destinato: la missione in Bulgaria quale Visitatore Apostolico. Dalla Bulgaria era tornato da poco, dopo una visita sondaggio, il giovane monsignor Eugenio Tisserant, un prelato francese di grande cultura e vivacità, specializzato in problemi orientali. Fu lui a proporre, per il momento, un Visitatore Apostolico nel regno di Boris III. Pio XI pensò subito a Roncalli. Per conferirgli l'autorità e il prestigio proporzionati all'incarico delicatissimo, lo nominò vescovo titolare di Areopolis, antichissima diocesi palestinese, un tempo sotto il dominio arabo ed ora territorialmente inesistente.
Roncalli apprese la nomina con calma, come sempre nelle svolte più decisive della sua vita. Più tardi scrisse cosa aveva provato in quel momento: «In realtà l'essere nominato vescovo o il rimanere semplice sacerdote vale qualche cosa per gli occhi, non dice gran che allo spirito di chi cerca la gloria del Signore e non il bagliore evanescente delle soddisfazioni terrene». Vedeva l'episcopato in funzione della sua missione, non la missione in funzione dell'episcopato.
Si liberò presto di tutti gli impegni, e si ritirò per alcuni giorni in ritiro a Villa Carpegna, presso Roma, dove stese appunti di meditazioni che restano ancora oggi esemplari: «Mi trovo qui in una antica villa romana, solo e ritirato per disporre il mio spirito alla consacrazione episcopale del giorno di San Giuseppe... In quanto da questa nomina viene qualche onore alla nostra congregazione (dei Preti del Sacro Cuore) mi compiaccio anch'io quietamente nel Signore. Per tutto il resto non sento che rossore e confusione. Faccio l'obbedienza vincendo forte ripugnanza a lasciare certe cose e ad avventurarmi a certe altre, e depongo ogni turbamento. Sì, Oboedientia et pax: ecco il mio motto episcopale. Così sia sempre».
La consacrazione avvenne il 19 marzo 1925 nella chiesa di San Carlo al Corso. Consacrava il cardinal Giovanni Tacci, della Congregazione per la Chiesa Orientale, e consacranti erano monsignor Marchetti Selvaggiani e monsignor Giuseppe Palica. Era presente una delegazione da Bergamo, e c'erano anche Marianna e Giovanni Battista Roncalli, sempre più vecchi, confusi, e felici, in tanta solennità.
Il giorno dopo il nuovo vescovo torno a San Pietro, come il giorno dopo l'ordinazione sacerdotale, e celebrò la Messa allo stesso altare di venti anni prima. Poi Pio XI lo ricevette, coi genitori, nel proprio appartamento, e li benedisse. Forse solo allora il padre e la madre, che non avrebbero mai sognato di giungere fin lì, nella casa del Papa, si resero conto di che cosa era diventato il loro Angelino. Fra le lacrime della commozione, certo nemmeno loro avrebbero adesso osato chiamarlo come tutti, e loro stessi, l'avevano per anni chiamato in paese: «Angelino pretino».

ADDIO, SOTTO IL MONTE!

Non io ho cercato o desiderato questo nuovo ministero, ma il Signore mi ha eletto con segni così evidenti della sua volontà da farmi ritenere grave colpa il contraddire. Dunque egli è obbligato a coprire le mie miserie ed a colmare le mie insufficienze. Ciò mi conforta, e mi dà tranquillità e sicurezza. Sarò vescovo: dunque non c'è più tempo da far preparazioni; il mio è stato di perfezione già "acquisita", non "acquirenda"... Quale spavento per me che mi sento così miserabile e difettoso in tante cose! Quale motivo a tenermi sempre umile, umile, umile! Il mondo non ha più fascini per me. Voglio essere tutto e solo di Dio, penetrato della sua luce, splendente della carità verso la Chiesa e le anime».
Questi erano i sentimenti profondi con cui Roncalli preparava il cuore e le valigie per lasciare l'Italia, Roma, Sotto il Monte: tutto il mondo dei suoi affetti e dei suoi entusiasmi, delle sue fatiche e delle sue speranze. L'umiltà non è stata una parola astratta, per lui; e tanto meno l'obbedienza. Ha sempre avuto il coraggio dei distacchi pronti e totali, e li ha sempre affrontati con serenità. Scrive, nello stesso ritiro di Villa Carpegna: «La Chiesa mi vuole vescovo per mandarmi in Bulgaria, ad esercitare come Visitatore Apostolico, un ministero di pace. Forse sulla mia vita mi attendono molte tribolazioni. Con l'aiuto del Signore mi sento pronto a tutto. Non cerco, non voglio la gloria di questo mondo; l'aspetto molto grande, nell'altro... Motto del mio stemma le parole "Oboedientia et pax", che il padre Cesare Baronio pronunciava tutti i giorni baciando in San Pietro il piede dell'Apostolo. Queste parole sono un po' la mia storia e la mia vita. Oh, siano esse la glorificazione del mio povero nome nei secoli!».
Non sapeva, scrivendo quelle parole con tanta serena umiltà, quanto fosse profeta.
Prima di partire, volle tornare ancora una volta, per pochi giorni, a Sotto il Monte. La sua gente gli si strinse intorno festante. Cominciava davvero la sua «glorificazione». Rivisse in quei giorni la sua vita in perfetta concordanza d'usi e incontri, come l'aveva vissuta da ragazzo e da seminarista in vacanza. Più tardi, dalla Bulgaria e dalla Turchia, i suoi aneliti alla pace e alla dolcezza di Sotto il Monte, nelle lettere ad amici e conoscenti, si faranno sempre più teneri e affettuosi. Ed ora guarda con amore tutte quelle cose, in cui ha avuto radice la sua umanità genuina, il senso della realtà, lo spirito della povertà, la fedeltà alla famiglia, l'intimità col creato.
Con che cuore avrà guardato tutte le creature e le cose che stava per abbandonare? È difficile prestare pensieri a chi ci si è consegnato in pienezza di umiltà e di evidenza interiore. Ma è certo che quello dev'essere stato un incontro particolarmente affettuoso, non privo di una vena di malinconia umana inevitabile.
Lì, nel calore della cascina Colombèra, tra la gente del suo sangue, accanto ai suoi vecchi sempre più stanchi, il senso sacro delle povere cose, dell'infanzia, della fatica, della preghiera e dell'innocenza gli si è fatto più chiaro, come un dono per l'anima che sta per incamminarsi verso nuovi orizzonti. Neanche per i santi i distacchi sono privi di dolore. E la gioia d'essere fra i suoi, nella sua aria, sulla sua terra, è stata certo quella che egli più tardi descriverà come la gioia dell'uccello che canta fra le spine: «Io sono un uccello che canta in un bosco di spine. L'immagine è di San Francesco di Sales; deve essere un perenne invito per me».
Ora vive intensamente, come mai visse, l'amicizia con le cose, con le creature più vicine, quelle che non cesseranno mai d'essere il metro della sua saggezza e della sua serenità. Sente l'afrore delle stalle dove tante volte zio Zaverio gli ha letto la Bibbia e le meditazioni del Da Ponte; vede poco lontano la casa natale, adesso divisa tra il padre e gli zii.
Rivede il cortile della casa, con la scala esterna di legno, le cose di tutti i cortili di contadini, e, in fondo, il «muro dei Roncalli», come lo chiamavano in paese. Seduto lì, con le sorelle e gli altri ragazzi, quante volte non fece allegro baccano anche lui, battendo col cucchiaio di legno sulla ciotola della minestra?
Vede la sua prima scuola, lo stanzone disadorno in cui un maestro disperato cercava di tenere a bada il ribollire di tanti ragazzini svagati ed inquieti, denutriti: ecco le quattro file di banchi, come allora, la lavagna sbreccata, la stufa nera e venata. Ecco il suo bel San Giovanni, ridente sul colle, con la grande torre quadrata. Ecco il sentiero per Fontanella Sant'Egidio, per Pontida, per Ca' de Rizzi, sua prima «pensione» domestica da studente. Ecco il suono delle campane lombarde, che tanto piaceva a Pio X.
Ecco le cose che contano, le cose che restano, in fondo al cuore, importanti e decisive anche per uno che sarà un giorno Papa.
Si sarà domandato, in quei giorni, il nuovo vescovo, se tutte quelle cose, quelle presenze, il dono di tutta quell'intimità intatta, di quell'innocenza agreste, sarebbe scomparso dal momento in cui avesse preso le difficili e sconosciute strade dell'Oriente?
Chi sa. Noi, ora, sappiamo soltanto una cosa: che la sua infanzia, legata ed espressa in tutte quelle cose, non è mai tramontata nel suo cuore, non s'è mai attenuata od offuscata. Ed è proprio quell'infanzia che ha regalato al mondo l'uomo di Dio, il pastore «mite e umile di cuore».
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